cosa pensiamo quando immaginiamo una produzione video? C’è sicuramente un’idea di partenza, la scelta delle location e quella degli attori, le riprese, il rumore del ciak e… “aaaazione!!!”, che abbiamo sentito dire tantissime volte.
Ma c’è anche una fase molto importante: la postproduzione è la parte di lavoro che segue la fine delle riprese, ma che si ricollega al momento in cui ci siamo immaginati il video per la prima volta. È proprio qui che il girato viene montato e “confezionato”. Attraverso la postproduzione il video prende vita e si avvicina sempre di più all’idea iniziale, fino a rivestirla perfettamente ed essere pronto, finalmente, per andare in onda.
Marco è il nostro montatore-filosofo, che vive il tempo ad un ritmo completamente diverso da tutti noi, lo distilla e lo riorganizza attraverso il suo lavoro meticoloso.
Ci siamo fermati alla sua scrivania per provare ad entrare nel suo mondo, fatto di millisecondi, di tagli, immagini e suoni inseriti esattamente nel posto giusto, al momento giusto.
Come si diventa un professionista del montaggio, da dove è partito tutto?
La passione per il montaggio è scaturita in modo preponderante dal mio modo di essere: sono maturato in ritardo rispetto ai miei coetanei, ho avuto modo di osservare molto prima di poter accedere al tempo reale, come se coltivassi il “dietro le quinte” anche nella mia vita. Questo è stato per me, e per quello che sarebbe diventata la mia professione, un valore aggiunto. A un certo punto, infatti, mi sono guardato intorno e mi sono chiesto: “Come faccio ad utilizzare tutto questo e a farlo fruttare?”
Al DAMS di Torino ho incrociato l’opera di Ėjzenštein ed è stato amore a prima vista: ho subito capito che mi sarei dedicato al montaggio.
Poi ho seguito diversi corsi professionalizzanti, e fatta gavetta in un’importante serie tv, sono finalmente approdato alle grandi case di produzione creative di Torino. Lì ho capito un’altra cosa: non solo montaggio, ma quello che mi affascinava di più era il montaggio pubblicitario.
Perché lo sottolinei? C’è una differenza tra montare un video pubblicitario e un film?
Una differenza enorme, certo. Con il racconto pubblicitario è necessario agire in tempi brevissimi: hai 30, 45, 60 secondi per raccontare una storia. In quella manciata di attimi devi saper catturare l’atmosfera, trovare l’emozione giusta e farla arrivare dritta sotto la pelle di chi guarderà il tuo spot.
È attraverso il lavoro di postproduzione che tutte le idee, le aspettative e gli obiettivi iniziali convogliano e si fanno video vero e proprio, magari con una serie di criticità che possono presentarsi e alle quali è necessario dare una risposta.
Come funziona il tuo lavoro?
A riprese ultimate mi arriva uno script con uno shooting board, dove vengono segnalati i ciak più convincenti. Questo mi permette di costruire una sorta di mappa per orientarmi nel lavoro fatto dai colleghi sul set.
Organizzare il materiale è fondamentale: devo capire come sono state girate le scene, a quale risoluzione, a che frame rate, quante inquadrature e quanti ciak sono stati girati; se l’audio è registrato a parte devo metterlo in sync con il labiale.
Esattamente come farebbe un sarto: imbastisco il mio progetto di montaggio e comincio a selezionare il materiale. I segreti di un buon montaggio sono la scelta delle immagini di partenza e il confronto che riesci ad instaurare con il regista, titolare della creatività visiva dell’opera, la figura ideale con cui scambiare suggestioni e condividere il lavoro.
A materiale razionalizzato, con il regista al proprio fianco, si procede alla realizzazione di quello che in gergo viene chiamato il “director’s cut”, che non è nient’altro che il taglio e l’assemblaggio delle scene del film, così com’è stato pensato e realizzato dal regista. È il suo personale punto di vista.
Quando siamo soddisfatti del montaggio, si condivide la visione del video con il cliente (che a volte è proprio presente fisicamente, com’è successo per Diasorin), che guarda il video e dà le sue primissime impressioni.
Quindi sei anche una specie di mediatore?
Diciamo di sì, il mio è un lavoro che cambia molto a seconda dei diversi progetti. Mi capita di montare alcuni pezzi completamente in solitaria, ma anche di passare ore al telefono con i colorist, gli esperti del 3d e di After Effects nei lavori che non trattano direttamente di live action (ad esempio i video per Zhermack), per essere sicuro di riuscire a tradurre tutte le intenzioni grafiche e visive del brand, rendendo reale l’intenzione che i creativi avevano espresso all’inizio del lavoro. Ad esempio, come traduciamo l’immagine del logo del brand in un’animazione? In postproduzione ogni singolo elemento concorre a cementare i valori e i messaggi che l’azienda vuole trasmettere. Il “bravo montatore” è quello che capisce e tiene insieme tutte le suggestioni che arrivano per interpretarle al meglio, senza andare mai fuori tema.
Ci lasci qualche ispirazione?
Vi lascio i titoli dei libri che più mi hanno insegnato l’arte del montaggio, partendo da quella bibbia laica che è “Teoria generale del montaggio” di Ėjzenštein, per chi vuole fare un vero e proprio viaggio nel tempo, agli albori di questa tecnica.
Poi c’è “Dare forma alle emozioni”, di Roberto Perpignani, che raccoglie le riflessioni, le considerazioni e la didattica “istintiva” di Roberto, un grande maestro del montaggio che ha lavorato anche con Orson Welles. Infine, “Manuale del montaggio”, di Diego Cassani, un vero e proprio percorso trasversale che affronta tutti gli aspetti connessi alla comunicazione audiovisiva in senso ampio.