Officina38

5 domande a Marco Quattrocolo, il nostro editor

 cosa pensiamo quando immaginiamo una produzione video? C’è sicuramente un’idea di partenza, la scelta delle location e quella degli attori, le riprese, il rumore del ciak e… “aaaazione!!!”, che abbiamo sentito dire tantissime volte.     Ma c’è anche una fase molto importante: la postproduzione è la parte di lavoro che segue la fine delle riprese, ma che si ricollega al momento in cui ci siamo immaginati il video per la prima volta. È proprio qui che il girato viene montato e “confezionato”. Attraverso la postproduzione il video prende vita e si avvicina sempre di più all’idea iniziale, fino a rivestirla perfettamente ed essere pronto, finalmente, per andare in onda. Marco è il nostro montatore-filosofo, che vive il tempo ad un ritmo completamente diverso da tutti noi, lo distilla e lo riorganizza attraverso il suo lavoro meticoloso. Ci siamo fermati alla sua scrivania per provare ad entrare nel suo mondo, fatto di millisecondi, di tagli, immagini e suoni inseriti esattamente nel posto giusto, al momento giusto.   Come si diventa un professionista del montaggio, da dove è partito tutto? La passione per il montaggio è scaturita in modo preponderante dal mio modo di essere: sono maturato in ritardo rispetto ai miei coetanei, ho avuto modo di osservare molto prima di poter accedere al tempo reale, come se coltivassi il “dietro le quinte” anche nella mia vita. Questo è stato per me, e per quello che sarebbe diventata la mia professione, un valore aggiunto. A un certo punto, infatti, mi sono guardato intorno e mi sono chiesto: “Come faccio ad utilizzare tutto questo e a farlo fruttare?” Al DAMS di Torino ho incrociato l’opera di Ėjzenštein ed è stato amore a prima vista: ho subito capito che mi sarei dedicato al montaggio. Poi ho seguito diversi corsi professionalizzanti, e fatta gavetta in un’importante serie tv, sono finalmente approdato alle grandi case di produzione creative di Torino. Lì ho capito un’altra cosa: non solo montaggio, ma quello che mi affascinava di più era il montaggio pubblicitario. Perché lo sottolinei? C’è una differenza tra montare un video pubblicitario e un film? Una differenza enorme, certo. Con il racconto pubblicitario è necessario agire in tempi brevissimi: hai 30, 45, 60 secondi per raccontare una storia. In quella manciata di attimi devi saper catturare l’atmosfera, trovare l’emozione giusta e farla arrivare dritta sotto la pelle di chi guarderà il tuo spot. È attraverso il lavoro di postproduzione che tutte le idee, le aspettative e gli obiettivi iniziali convogliano e si fanno video vero e proprio, magari con una serie di criticità che possono presentarsi e alle quali è necessario dare una risposta. Come funziona il tuo lavoro? A riprese ultimate mi arriva uno script con uno shooting board, dove vengono segnalati i ciak più convincenti. Questo mi permette di costruire una sorta di mappa per orientarmi nel lavoro fatto dai colleghi sul set. Organizzare il materiale è fondamentale: devo capire come sono state girate le scene, a quale risoluzione, a che frame rate, quante inquadrature e quanti ciak sono stati girati; se l’audio è registrato a parte devo metterlo in sync con il labiale. Esattamente come farebbe un sarto: imbastisco il mio progetto di montaggio e comincio a selezionare il materiale. I segreti di un buon montaggio sono la scelta delle immagini di partenza e il confronto che riesci ad instaurare con il regista, titolare della creatività visiva dell’opera, la figura ideale con cui scambiare suggestioni e condividere il lavoro. A materiale razionalizzato, con il regista al proprio fianco, si procede alla realizzazione di quello che in gergo viene chiamato il “director’s cut”, che non è nient’altro che il taglio e l’assemblaggio delle scene del film, così com’è stato pensato e realizzato dal regista. È il suo personale punto di vista. Quando siamo soddisfatti del montaggio, si condivide la visione del video con il cliente (che a volte è proprio presente fisicamente, com’è successo per Diasorin), che guarda il video e dà le sue primissime impressioni. Quindi sei anche una specie di mediatore? Diciamo di sì, il mio è un lavoro che cambia molto a seconda dei diversi progetti. Mi capita di montare alcuni pezzi completamente in solitaria, ma anche di passare ore al telefono con i colorist, gli esperti del 3d e di After Effects nei lavori che non trattano direttamente di live action (ad esempio i video per  Zhermack), per essere sicuro di riuscire a tradurre tutte le intenzioni grafiche e visive del brand, rendendo reale l’intenzione che i creativi avevano espresso all’inizio del lavoro. Ad esempio, come traduciamo l’immagine del logo del brand in un’animazione? In postproduzione ogni singolo elemento concorre a cementare i valori e i messaggi che l’azienda vuole trasmettere. Il “bravo montatore” è quello che capisce e tiene insieme tutte le suggestioni che arrivano per interpretarle al meglio, senza andare mai fuori tema. Ci lasci qualche ispirazione? Vi lascio i titoli dei libri che più mi hanno insegnato l’arte del montaggio, partendo da quella bibbia laica che è “Teoria generale del montaggio” di Ėjzenštein, per chi vuole fare un vero e proprio viaggio nel tempo, agli albori di questa tecnica. Poi c’è “Dare forma alle emozioni”, di Roberto Perpignani, che raccoglie le riflessioni, le considerazioni e la didattica “istintiva” di Roberto, un grande maestro del montaggio che ha lavorato anche con Orson Welles. Infine, “Manuale del montaggio”, di Diego Cassani, un vero e proprio percorso trasversale che affronta tutti gli aspetti connessi alla comunicazione audiovisiva in senso ampio.  

5 domande a Greg Ferro

Officina38 è una grande famiglia allargata di professionisti, che lavorano insieme per mettere al servizio di ogni progetto video, tecnica e creatività.   no dei registi con cui ci piace di più dividere il set è Greg Ferro: estro, carisma e voglia di sperimentare fanno di lui un collaboratore insostituibile. Sempre pronto a lanciarsi nel mezzo della scena con una camera a spalla, sostiene che il mondo sia più interessante visto dall’occhio della macchina da presa e viaggia a ritmo di musica: noi siamo riusciti a fermarlo solo per il tempo di pochissime domande.   Com’è iniziata la tua avventura da regista? In realtà la mia è una formazione musicale: ho studiato musica e suonato per una vita in tournée tra Italia ed estero. Suonando mi sono avvicinato e appassionato al mondo dei videoclip e così ho scelto di passare dall’altra parte della camera, iniziando a fare il regista. Oggi vivo tra l’Italia e Bangkok, la mia seconda base, con qualche puntata a Los Angeles. Raccontaci meglio il tuo lavoro e lo stile che ti contraddistingue. Lavoro principalmente nel settore pubblicitario, come creativo e come regista, firmando video sport, fashion e tabletop. Non so stare fermo: amo spaziare e sperimentare, perché credo che un regista debba essere in grado di fare tutto. Ho anche girato un mio film in collaborazione con Officina38, un road movie a metà tra Asia e gli States. Sul set amo girare con la camera in spalla… fosse per me utilizzerei solo questa tecnica lasciando stare carrelli, droni e tutto il resto della strumentazione. In questo modo riesco ad entrare meglio nella scena, a coglierne ogni aspetto, immergendomi davvero con tutto me stesso.   Missoni Fashion Film Qual è la dote essenziale per un regista? La leadership. Se non sei un leader, non puoi essere un regista. In pubblicità, più che in altri settori, è fondamentale perché devi rendere conto a molte persone dentro e fuori dal set. È compito del regista essere una guida, un riferimento… altrimenti diventa un dramma! Com’è lavorare con tutta la squadra sul set? Le uniche figure che cerco di non cambiare mai sono il direttore di fotografia e il montatore, perché anche sul set amo cambiare, sperimentare, conoscere persone nuove e imparare da ciascuno di loro. Credo che lavorare con collaboratori diversi ti aiuti a metterti in gioco, a non ripeterti, a creare ogni volta qualcosa di nuovo e diverso. Ho visto diversi lavori di registi che si affidano sempre allo stesso team, ma il risultato è molto simile e difficilmente bello come il primo. Sul set mi definisco un buffone: cerco di allentare lo stress per far lavorare tutti in un clima rilassato. Sono rigido, preciso e a volte perfino maniacale – sì, faccio impazzire i produttori! –  ma cerco anche di divertirmi e di far divertire gli altri. E lavorare con Officina38? Conosco Anna Frandino (la founder e producer) da tempo, condividiamo una bella amicizia e abbiamo visioni e idee molto simili sul mondo della produzione video. È molto competente e sceglie sempre bene i suoi collaboratori: l’ambiente di ogni lavoro fatto insieme è rilassato e professionale. Ci lasci un’ispirazione? Che cosa stai guardando in questi giorni? Da qualche giorno mi sono appassionato a “Love, Death & Robots” su Netflix. Ogni episodio è un cortometraggio, sempre di un regista diverso, che ti lascia una montagna di nuove idee e ispirazioni. Lo stile è quello del fantasy intellettuale e ho già almeno due pagine di appunti per ogni episodio: non potete perderlo!   Love, Death & Robots

Notte degli Oscar 2019

La notte degli Oscar è stato un evento che ha confermato molte aspettative, ma ne ha disattese molte altre.   no show senza presentatore, come già anticipato dalle polemiche dei mesi scorsi, che da un lato ha dato spazio a film audaci come La Favorita e Black Panther, ma dall’altro ha confermato la vittoria di film “più convenzionali” come Green Book. In totale sono 15 i film che hanno portato a casa le 24 statuette: Bohemian Rhapsody ha guidato il gruppo con quattro Oscar; Green Book, Roma e Black Panther ne hanno portati a casa tre. In Officina38 non abbiamo staccato gli occhi dallo schermo: ecco i vincitori, e gli sconfitti, della notte più importante di Hollywood. Premio per il miglior film: Green Book. È il genere di film che in passato sarebbe stato un ovvio vincitore del “Best Picture”: è una pellicola godibile, con due forti performance centrali e un lieto fine d’ispirazione. È partito un po’ in sordina al botteghino, ma è stato un successo immediato nel circuito dei festival, vincendo l’ambito premio Grolsch People’s Choice al Toronto International Film Festival – spesso indicatore di successo agli Oscar. Anche le recensioni sono state generalmente positive nei confronti di questa commedia, più apprezzato in Europa rispetto agli States. La storia è quella di un pianista nero che assume un autista italo-americano per farsi accompagnare in un tour attraverso i Deep South, nel 1962. La regia di Peter, il più giovane dei fratelli Farrelly, è in qualche modo una rivincita sul passato della loro filmografia, connotata da commedie pseudo demenziali (ricordate Scemo e più scemo?). La premiazione agli Oscar – uno per la sceneggiatura, uno per l’attore non protagonista a Mahershala Ali e uno alla fotografia –   include anche una vittoria per ‘Best Commedy o Musical’ ai Golden Globes di gennaio scorso. Commovente la dedica finale del produttore di Green Book, Charles Wessler, all’attrice Carrie Fisher, donna di grandissimo umorismo scomparsa l’anno scorso. Gli altri vincitori: da Bohemian Rhapsody a Roma. Se è vero che Green Book ha portato a casa il primo premio, nessuno degli altri titoli candidati a miglior film è andato a casa a mani vuote. Bohemian Rhapsody non ha vinto il Best Picture, ma ha comunque conquistato il maggior numero di Oscar in questa edizione, quattro in totale: miglior montaggio, miglior sonoro e miglior montaggio sonoro e soprattutto miglior attore protagonista, Rami Malek. Black Panther ha vinto i tre premi considerati più tecnici: costumi, scenografia e colonna sonora originale. Roma, di Alfonso Cuaròn, ha ricevuto gli Oscar per il miglior film in lingua straniera, oltre alla regia e alla fotografia, firmata sempre da Cuaròn. Una curiosità: per la quinta volta in sei edizioni, l’Oscar per la regia è stato assegnato ad un regista messicano. A consegnare il premio, Guillermo del Toro, carissimo amico di Cuaròn e vincitore della passata edizione. Gli altri quattro “nominees” hanno portato a casa un Oscar ciascuno. Il nome più quotato per il premio come miglior attrice era quello di Glenn Close, candidata per The Wife, ma ad aggiudicarsi la statuetta è stata invece Olivia Colman, per la sua convincente interpretazione ne La favorita  di Yorgos Lanthimos. Siamo sinceramente dispiaciuti per Glenn Close, che manca sempre il premio per un soffio, ma siamo assolutamente convinti che la Coleman abbia strameritato questo Oscar: il suo discorso è stato uno dei momenti più toccanti in una cerimonia tendenzialmente sottotono. Vice ha vinto per il trucco e le acconciature, con un Christian Bale che nel biopic su Dick Cheney è quasi irriconoscibile. Viso rotondo, capelli tinti, doppio mento: la trasformazione nel numero due di George W. Bush è pienamente riuscita. Certamente non è stata la serata perfetta per Spike Lee: il suo film BlacKkKlansman – che ha vinto il Grand Prix al Festival di Cannes lo scorso maggio – era candidato a miglior sceneggiatura non originale, miglior regista e miglior film. Tre nomination e solamente una statuetta: miglior sceneggiatura non originale,  il suo primo Oscar in carriera, festeggiato saltando in braccio al suo caro amico Samuel Jackson, che gliel’ha consegnato. L’umore di Spike Lee in questa edizione però non è stato dei migliori: davanti ai giornalisti ha bollato il premio di Green Book come “scelta sbagliata”, senza mezzi termini. Infine A Star Is Born ha conquistato la statuetta per la migliore canzone originale con “Shallow”, interpretata dalla bravissima Lady Gaga (primo Oscar anche per lei) e l’Oscar per la miglior attrice non protagonista è andato a Regina King, che ha recitato in Se la strada potesse parlare. Da Officina38 abbiamo applaudito nuovamente Roma, che abbiamo particolarmente amato, ma siamo andati a letto all’alba con l’amaro in bocca per La Favorita, che secondo noi meritava molto di più di una singola statuetta.

53° Super Bowl

Ogni anno il Super Bowl è l’evento sportivo più seguito al mondo.   urante questo evento sportivo gli spazi pubblicitari sono ovviamente molto ambiti dai grandi brand, che arrivano a pagare milioni di dollari per 30″. Per questo motivo, realizzano campagne pubblicitarie ad hoc, creando così un’aspettativa anche nel pubblico: il Super Bowl è la giornata in cui non solo si tollera l’intervallo pubblicitario, ma è il momento in cui più si celebra l’industria pubblicitaria. Abbiamo ovviamente guardato tutti gli spot presentati, scegliendo il nostro preferito di quest’anno: lo spot della Birra Stella Artois. Il film ha come protagonisti i personaggi di Carrie Bradshaw, di Sex and the City, e di “The Dude“, del Grande Leboswki. Oltre al twist narrativo dello spot, quello che ci ha convinti, è la direzione che il brand ha voluto prendere: la celebrazione degli anni 90, attraverso uno spot “nostalgia” che va a parlare al target che negli anni 90 aveva 20-30 anni e che ora rappresenta il pubblico con il potere di acquisto più forte per il loro prodotto. I due personaggi iconici sono stati coinvolti per rafforzare anche il messaggio di impegno sociale, preso dal brand tramite la campagna “Pour it forward” destinata ad aumentare l’accesso all’acqua potabile nei Paesi in via di sviluppo. La campagna è promossa in partnership con Water.org. Lo spot è stato lanciato qualche giorno prima del Super Bowl da un tweet di Jeff Bridges, senza svelare che fosse uno spot, ragione per cui tutti i fan dello storico film si erano illusi in un sequel che continua ad essere richiesto dal pubblico, ma che neanche questa volta sembra essere in cantiere.     Questo spot ci è piaciuto perché oltre a far tornare sullo schermo due dei nostri personaggi preferiti di sempre che promuovono una delle nostre bevande preferite, la birra(!), ha anche un valore sociale: quando la pubblicità è divertente e utile!   Per guardare lo spot clicca qui: Enjoy!!