5 domande a Marco Quattrocolo, il nostro editor
cosa pensiamo quando immaginiamo una produzione video? C’è sicuramente un’idea di partenza, la scelta delle location e quella degli attori, le riprese, il rumore del ciak e… “aaaazione!!!”, che abbiamo sentito dire tantissime volte. Ma c’è anche una fase molto importante: la postproduzione è la parte di lavoro che segue la fine delle riprese, ma che si ricollega al momento in cui ci siamo immaginati il video per la prima volta. È proprio qui che il girato viene montato e “confezionato”. Attraverso la postproduzione il video prende vita e si avvicina sempre di più all’idea iniziale, fino a rivestirla perfettamente ed essere pronto, finalmente, per andare in onda. Marco è il nostro montatore-filosofo, che vive il tempo ad un ritmo completamente diverso da tutti noi, lo distilla e lo riorganizza attraverso il suo lavoro meticoloso. Ci siamo fermati alla sua scrivania per provare ad entrare nel suo mondo, fatto di millisecondi, di tagli, immagini e suoni inseriti esattamente nel posto giusto, al momento giusto. Come si diventa un professionista del montaggio, da dove è partito tutto? La passione per il montaggio è scaturita in modo preponderante dal mio modo di essere: sono maturato in ritardo rispetto ai miei coetanei, ho avuto modo di osservare molto prima di poter accedere al tempo reale, come se coltivassi il “dietro le quinte” anche nella mia vita. Questo è stato per me, e per quello che sarebbe diventata la mia professione, un valore aggiunto. A un certo punto, infatti, mi sono guardato intorno e mi sono chiesto: “Come faccio ad utilizzare tutto questo e a farlo fruttare?” Al DAMS di Torino ho incrociato l’opera di Ėjzenštein ed è stato amore a prima vista: ho subito capito che mi sarei dedicato al montaggio. Poi ho seguito diversi corsi professionalizzanti, e fatta gavetta in un’importante serie tv, sono finalmente approdato alle grandi case di produzione creative di Torino. Lì ho capito un’altra cosa: non solo montaggio, ma quello che mi affascinava di più era il montaggio pubblicitario. Perché lo sottolinei? C’è una differenza tra montare un video pubblicitario e un film? Una differenza enorme, certo. Con il racconto pubblicitario è necessario agire in tempi brevissimi: hai 30, 45, 60 secondi per raccontare una storia. In quella manciata di attimi devi saper catturare l’atmosfera, trovare l’emozione giusta e farla arrivare dritta sotto la pelle di chi guarderà il tuo spot. È attraverso il lavoro di postproduzione che tutte le idee, le aspettative e gli obiettivi iniziali convogliano e si fanno video vero e proprio, magari con una serie di criticità che possono presentarsi e alle quali è necessario dare una risposta. Come funziona il tuo lavoro? A riprese ultimate mi arriva uno script con uno shooting board, dove vengono segnalati i ciak più convincenti. Questo mi permette di costruire una sorta di mappa per orientarmi nel lavoro fatto dai colleghi sul set. Organizzare il materiale è fondamentale: devo capire come sono state girate le scene, a quale risoluzione, a che frame rate, quante inquadrature e quanti ciak sono stati girati; se l’audio è registrato a parte devo metterlo in sync con il labiale. Esattamente come farebbe un sarto: imbastisco il mio progetto di montaggio e comincio a selezionare il materiale. I segreti di un buon montaggio sono la scelta delle immagini di partenza e il confronto che riesci ad instaurare con il regista, titolare della creatività visiva dell’opera, la figura ideale con cui scambiare suggestioni e condividere il lavoro. A materiale razionalizzato, con il regista al proprio fianco, si procede alla realizzazione di quello che in gergo viene chiamato il “director’s cut”, che non è nient’altro che il taglio e l’assemblaggio delle scene del film, così com’è stato pensato e realizzato dal regista. È il suo personale punto di vista. Quando siamo soddisfatti del montaggio, si condivide la visione del video con il cliente (che a volte è proprio presente fisicamente, com’è successo per Diasorin), che guarda il video e dà le sue primissime impressioni. Quindi sei anche una specie di mediatore? Diciamo di sì, il mio è un lavoro che cambia molto a seconda dei diversi progetti. Mi capita di montare alcuni pezzi completamente in solitaria, ma anche di passare ore al telefono con i colorist, gli esperti del 3d e di After Effects nei lavori che non trattano direttamente di live action (ad esempio i video per Zhermack), per essere sicuro di riuscire a tradurre tutte le intenzioni grafiche e visive del brand, rendendo reale l’intenzione che i creativi avevano espresso all’inizio del lavoro. Ad esempio, come traduciamo l’immagine del logo del brand in un’animazione? In postproduzione ogni singolo elemento concorre a cementare i valori e i messaggi che l’azienda vuole trasmettere. Il “bravo montatore” è quello che capisce e tiene insieme tutte le suggestioni che arrivano per interpretarle al meglio, senza andare mai fuori tema. Ci lasci qualche ispirazione? Vi lascio i titoli dei libri che più mi hanno insegnato l’arte del montaggio, partendo da quella bibbia laica che è “Teoria generale del montaggio” di Ėjzenštein, per chi vuole fare un vero e proprio viaggio nel tempo, agli albori di questa tecnica. Poi c’è “Dare forma alle emozioni”, di Roberto Perpignani, che raccoglie le riflessioni, le considerazioni e la didattica “istintiva” di Roberto, un grande maestro del montaggio che ha lavorato anche con Orson Welles. Infine, “Manuale del montaggio”, di Diego Cassani, un vero e proprio percorso trasversale che affronta tutti gli aspetti connessi alla comunicazione audiovisiva in senso ampio.
5 domande a Greg Ferro
Officina38 è una grande famiglia allargata di professionisti, che lavorano insieme per mettere al servizio di ogni progetto video, tecnica e creatività. no dei registi con cui ci piace di più dividere il set è Greg Ferro: estro, carisma e voglia di sperimentare fanno di lui un collaboratore insostituibile. Sempre pronto a lanciarsi nel mezzo della scena con una camera a spalla, sostiene che il mondo sia più interessante visto dall’occhio della macchina da presa e viaggia a ritmo di musica: noi siamo riusciti a fermarlo solo per il tempo di pochissime domande. Com’è iniziata la tua avventura da regista? In realtà la mia è una formazione musicale: ho studiato musica e suonato per una vita in tournée tra Italia ed estero. Suonando mi sono avvicinato e appassionato al mondo dei videoclip e così ho scelto di passare dall’altra parte della camera, iniziando a fare il regista. Oggi vivo tra l’Italia e Bangkok, la mia seconda base, con qualche puntata a Los Angeles. Raccontaci meglio il tuo lavoro e lo stile che ti contraddistingue. Lavoro principalmente nel settore pubblicitario, come creativo e come regista, firmando video sport, fashion e tabletop. Non so stare fermo: amo spaziare e sperimentare, perché credo che un regista debba essere in grado di fare tutto. Ho anche girato un mio film in collaborazione con Officina38, un road movie a metà tra Asia e gli States. Sul set amo girare con la camera in spalla… fosse per me utilizzerei solo questa tecnica lasciando stare carrelli, droni e tutto il resto della strumentazione. In questo modo riesco ad entrare meglio nella scena, a coglierne ogni aspetto, immergendomi davvero con tutto me stesso. Missoni Fashion Film Qual è la dote essenziale per un regista? La leadership. Se non sei un leader, non puoi essere un regista. In pubblicità, più che in altri settori, è fondamentale perché devi rendere conto a molte persone dentro e fuori dal set. È compito del regista essere una guida, un riferimento… altrimenti diventa un dramma! Com’è lavorare con tutta la squadra sul set? Le uniche figure che cerco di non cambiare mai sono il direttore di fotografia e il montatore, perché anche sul set amo cambiare, sperimentare, conoscere persone nuove e imparare da ciascuno di loro. Credo che lavorare con collaboratori diversi ti aiuti a metterti in gioco, a non ripeterti, a creare ogni volta qualcosa di nuovo e diverso. Ho visto diversi lavori di registi che si affidano sempre allo stesso team, ma il risultato è molto simile e difficilmente bello come il primo. Sul set mi definisco un buffone: cerco di allentare lo stress per far lavorare tutti in un clima rilassato. Sono rigido, preciso e a volte perfino maniacale – sì, faccio impazzire i produttori! – ma cerco anche di divertirmi e di far divertire gli altri. E lavorare con Officina38? Conosco Anna Frandino (la founder e producer) da tempo, condividiamo una bella amicizia e abbiamo visioni e idee molto simili sul mondo della produzione video. È molto competente e sceglie sempre bene i suoi collaboratori: l’ambiente di ogni lavoro fatto insieme è rilassato e professionale. Ci lasci un’ispirazione? Che cosa stai guardando in questi giorni? Da qualche giorno mi sono appassionato a “Love, Death & Robots” su Netflix. Ogni episodio è un cortometraggio, sempre di un regista diverso, che ti lascia una montagna di nuove idee e ispirazioni. Lo stile è quello del fantasy intellettuale e ho già almeno due pagine di appunti per ogni episodio: non potete perderlo! Love, Death & Robots
“Roma” di Cuaròn
“Roma” di Cuaròn: il film che ci ha conquistati ra i vari premi, un Leone d’Oro a Venezia e un Golden Globe alla miglior regia, secondo noi meritatissimi. E ora la corsa agli Oscar. Siamo stati incatenati da questo bianco e nero che colora con potenza personaggi, dinamiche familiari, luoghi e temi eterni come la città: temi privati eppure universali, quelli della nascita, della morte, della fede e del dolore. Il film è stato prodotto da Netflix, è uscito al cinema, e si può ora vedere sulla piattaforma. Se ci consentite una deformazione professionale, una cosa che ci è molto piaciuta è la scelta di Cuaròn di girare il film con una videocamera digitale ARRI, l’ALEXA 65, che ci ha fatto ricordare le atmosfere e la scarnezza visiva del cinema neorealista italiano, ma senza la presenza della grana della pellicola, perché, come ha detto il regista in diverse occasioni, il suo scopo era di guardare al passato, ma con i suoi occhi del presente. Il regista Cuaròn, ha firmato anche la direzione della fotografia, quindi il suo coinvolgimento sul film è stato totale, oltre al fatto che la storia stessa avesse fortissimi riferimenti autobiografici della sua infanzia passate nel quartiere Roma di Città del Messico. Una delle scene più difficili da girare, è stata sicuramente il piano sequenza finale del film: per questa scena è stato costruito un pontile che permettesse al technocrane di rimanere sempre alla stessa altezza rispetto agli attori, alla spiaggia e al mare. Il tempo utile di luce per girare questa scena era solo di mezz’ora, dalle 17.30 alle 18. Era stato previsto di poter fare 6 shots della scena, ridotte poi invece ad un’unica possibilità, a causa di una tempesta che aveva danneggiato il pontile, proprio il giorno prima delle riprese. La scena quindi ha dovuto essere “buona la prima“, riuscendo quindi ad avere un risultato molto soddisfacente sia dal punto di vista tecnico che attoriale. Insomma, questo film è un ottimo esempio di una grande regia, che ha saputo unire al meglio tutti gli aspetti tecnici a quelli creativi, messi a disposizione di una storia intima, ma estremamente espressiva.